Il furor di Medea in scena al Teatro Carcano di Milano
“Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? E’ vile/ non far ciò che bisogna, anche se orribile./ Su, sciagurata mano mia, la spada, stringi la spada […]”
(Medea, V Episodio, v. 1263 e ss.)
Dal 4 al 15 Maggio, al Teatro Carcano di Milano, fiammeggerà la tragedia euripidea: il furor di “Medea” empierà la sala, relegandoci infine al buio, nei labirinti della mente. L’Arte di Pamela Villoresi e la ‘sensibilità drammatica’ di David Sebasti, novello Giasone, offriranno la scintilla ad una vibrante ed intensa rappresentazione diretta da Maurizio Panici, responsabile – insieme a Michele di Martino – della traduzione e dell’adattamento alle scene dell’universale capolavoro del V secolo a.C. Fervida di pathos e contraddistinta da una sorprendente ‘moderna tragicità’ – a tratti trafitta dal ‘lampo interiore’ delle musiche di Luciano Vavolo ed enfatizzata dal progetto scenico di Michele Ciacciofera – tale rappresentazione giunge dunque al rinomato Carcano di Milano dopo le coinvolgenti esperienze sceniche di Taormina (2003) e di Tindari (2010); ad attenderci, quindi, è la sfaccettatura di un tour estremamente brillante, l’eclissi d’una ardente dualità di passioni.
Rappresentata per la prima volta nel 431 a.C. ed ambientata a Corinto, “Medea” è la scissione dolorosa di un’anima muliebre, che per la prima volta nella storia del teatro tragico viene delineata in ogni suo buio anfratto; è il nome di una principessa barbara – originaria della Colchide – che per totale dedizione nei confronti del suo uomo tradisce il proprio padre, abbandona la sua terra, rinuncia alle prerogative di donna libera e rispettata per assurgere ad essere madre – emarginata, oltraggiata e priva di patria – nel rigido e stratificato ‘microcosmo’ dell’Ellade. “Medea” rappresenta la dicotomia dell’universo mitico dal quale essa sgorga: in lei confluiscono infatti la stirpe del Sole e la sapienza ancestrale della Luna; convivono il raziocinio della polis ed il sapere esoterico della “Terra dei Titani”. Il dolore lacerante seguito al ripudio di Giasone e all’oltraggio da lui recato al sacro talamo nuziale in virtù del mero desiderio di autoaffermazione, la prospettiva di un esilio al quale le convenzioni sociali vorrebbero costringerla, divengono per la protagonista come lampi e aliti di fuoco, strazianti e funesti impulsi per attuare – con ‘irragionevole raziocinio’ – un’atroce vendetta.
In “Medea” è il dolore stesso ad essere ‘sondato’, il tortuoso rivelarsi di un personaggio emblematico che racchiude in sé tradizione ed innovazione, mito e conflitto interiore. La mimesis di Euripide (480-406 a.C.) si appropria della realtà sociale subita dalla donna nel suo secolo, per scalfire i valori fondanti della polis e lasciare la parola alle più estreme passioni; lo spettatore sgomento assiste dunque all’ethos impotente, relegato nei meandri bui del suo tempo e della sua mente. Di regola, vi è la catarsi finale: mentre la “leonessa, non donna” Medea, in seguito all’abominio dell’infanticidio, viene sottratta all’ira di Giasone da Hera stessa – la dea della maternità – che la trasporta presso il suo tempio sul carro alato del Sole, offrendole idealmente il ricongiungimento con la stirpe di Helios, l’animo di colui che assiste all’Esodo, purificato, ”[…] si riappropria delle sue passioni contrastanti […] apprende la natura tragica della vita” (Nietzsche, La nascita della tragedia).
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Giada Eva Elisa Tarantino