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Le nuove guerre del petroglio

Le nuove guerre del petroglio

Redazione

Dallo stretto di Hormuz al mar Cinese meridionale, il futuro del pianeta è segnato dalla lotta per il controllo delle fonti energetiche. Nuovi conflitti e crisi economiche scoppieranno in regioni nevralgiche per gli equilibri globali.
Benvenuti nel nervoso mondo in cui un singolo incidente in un punto nevralgico del pianeta rischia di mandare in crisi un’intera regione, provocare scontri sanguinosi, far salire alle stelle il prezzo del petrolio e mettere in pericolo l’economia globale. Il continuo aumento della richiesta di energia e la diminuzione delle sue riserve segnano l’ingresso nell’era della geo­energia, una fase in cui la politica internazionale sarà dominata dalle lotte per il controllo di risorse vitali. Già a partire da quest’anno l’energia e i conflitti saranno legati tra loro sempre più strettamente, e alcune zone diventeranno sempre più importanti.

Prendiamo, per esempio, lo stretto di Hormuz, che sta facendo tremare i mercati dell’energia. Questo tratto di mare che collega il golfo Persico con l’oceano Indiano non ha nessuna rilevanza geografica, ma in un mondo profondamente consapevole dei problemi energetici ha probabilmente un’importanza strategica maggiore di qualsiasi altro braccio di mare del pianeta. Secondo il dipartimento statunitense dell’energia, ogni giorno quest’arteria vitale è attraversata da petroliere che trasportano circa 17 milioni di barili di greggio, cioè il 20 per cento del fabbisogno mondiale quotidiano. Per questo il prezzo del petrolio è salito immediatamente quando, a dicembre, un alto funzionario iraniano ha minacciato di bloccare lo stretto in risposta a nuove sanzioni economiche decise da Washington. Anche se l’esercito statunitense si è impegnato a mantenerlo aperto, i dubbi sulla sicurezza delle future spedizioni di petrolio e la preoccupazione che si scateni una crisi potenzialmente infinita tra Washington, Teheran e Tel Aviv hanno spinto gli esperti di energia a prevedere che il prezzo del greggio resterà alto ancora per molti mesi, causando ulteriori problemi a un’economia globale già in affanno.

Lo stretto di Hormuz, però, è solo uno dei molti punti nevralgici in cui energia, politica e geografia rischiano di intrecciarsi pericolosamente. Dovremo tenere d’occhio anche il mar Cinese orientale e quello meridionale, il bacino del Caspio e la zona artica, che è ricca di petrolio e i cui ghiacci si stanno sciogliendo. In tutti questi posti alcuni paesi si contendono il controllo della produzione e del trasporto dell’energia, e discutono sui confini nazionali e i diritti di transito.

Nei prossimi anni l’ubicazione delle fonti di energia e delle sue vie di approvvigionamento – oleodotti e gasdotti, porti e rotte delle petroliere – sarà fondamentale per la mappa strategica globale. Le principali zone di produzione, come il golfo Persico, manterranno la loro importanza vitale. Lo stesso vale per alcuni punti di transito come lo stretto di Hormuz, quello di Malacca (tra l’oceano Indiano e il mar Cinese meridionale) e le “vie di comunicazione marine” (Sloc, sea lines of communication), come le chiamano gli strateghi navali, cioè le rotte che collegano le aree di produzione con i mercati stranieri. Grandi potenze come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina prepareranno sempre più i loro eserciti a combattere in queste zone.

Lo dimostra un corposo documento che s’intitola: “A sostegno della leadership mondiale degli Stati Uniti”. È stato presentato al Pentagono il 5 gennaio dal presidente Barack Obama e dal segretario alla difesa Leon Panetta. Da una parte il documento prevede un ridimensionamento dell’esercito e del corpo dei marines, ma dall’altra chiede il potenziamento dell’aeronautica e della marina per proteggere e controllare le rotte internazionali del commercio e dell’energia. Pur ribadendo tiepidamente i legami storici con l’Europa e il Medio Oriente, il documento sottolinea la necessità di rafforzare la presenza statunitense “nella regione che va dal Pacifico occidentale e dall’Asia orientale all’oceano Indiano e all’Asia meridionale”.

Il greggio del golfo Persico
In questa nuova era il controllo dell’energia e il suo trasporto saranno al centro di crisi globali ricorrenti. Lo stretto di Hormuz, che separa l’Iran dall’Oman e dagli Emirati Arabi Uniti, è l’unico collegamento tra la regione del golfo Persico e il resto del mondo. La maggior parte del greggio prodotto da Iran, Iraq, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti lo attraversa ogni giorno e questo, come dice il dipartimento dell’energia statunitense, rende lo stretto “il più importante punto nevralgico del mondo per quanto riguarda il petrolio”. Secondo alcuni analisti, una chiusura prolungata di Hormuz potrebbe far aumentare del 50 per cento il prezzo del greggio e provocare una recessione, se non addirittura una depressione globale.

Da tempo i politici statunitensi considerano lo stretto fondamentale per i loro piani strategici e sono convinti che vada difeso a qualsiasi costo. Il primo a esprimere questa convinzione fu il presidente Jimmy Carter nel gennaio del 1980, subito dopo l’invasione e l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica. Carter dichiarò al congresso che Mosca aveva “portato il suo esercito a trecento miglia dall’oceano Indiano e molto vicino allo stretto di Hormuz, attraverso il quale passa la maggior parte del petrolio del mondo”. Washington doveva dare una risposta chiara: da quel momento qualsiasi tentativo di una potenza ostile di bloccare lo stretto sarebbe stato considerato “un attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti” e doveva essere “impedito con tutti i mezzi necessari, compresa la forza”.

Da quando il presidente fece questa dichiarazione – che in seguito fu definita “dottrina Carter” – e istituì il Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom) per sorvegliare lo stretto, nella regione del Golfo sono cambiate molte cose, ma non la determinazione di Washington a garantire che il petrolio passi indisturbato attraverso Hormuz. Anzi, il presidente Obama ha fatto capire chiaramente che anche se le truppe di terra dovessero lasciare l’Afghanistan, come hanno fatto con l’Iraq, la presenza delle forze aeree e navali del Centcom nella zona del golfo Persico non verrebbe ridotta.

È probabile che gli iraniani metteranno alla prova le capacità di controllo di Washington. Il 27 dicembre il vicepresidente iraniano Mohammad Reza Rahimi ha dichiarato che “se gli statunitensi imporranno sanzioni sulle esportazioni di greggio dell’Iran, neanche una goccia di petrolio passerà più attraverso lo stretto di Hormuz”. Dichiarazioni simili sono state rilasciate da alcuni alti funzionari del paese (e contraddette da altri). Di recente, inoltre, gli iraniani hanno condotto un’esercitazione navale nel mar d’Arabia, vicino alla bocca orientale dello stretto, e si dice che abbiano in programma molte altre manovre di questo tipo. Il comandante in capo dell’esercito iraniano ha fatto intendere che la John C. Tennis, una portaerei statunitense che sta lasciando il golfo Persico, farebbe bene a non tornare indietro. “La Repubblica islamica iraniana”, ha aggiunto in tono minaccioso, “non ripeterà l’avvertimento”.

Gli iraniani potrebbero davvero bloccare lo stretto? Molti analisti sono convinti che le dichiarazioni di Rahimi e dei suoi colleghi abbiano solo lo scopo di spaventare i leader occidentali, far salire il prezzo del petrolio e ottenere concessioni se i negoziati sul programma nucleare di Teheran dovessero riprendere. Ma le condizioni economiche dell’Iran sono sempre più difficili e, messi sotto pressione, i falchi del regime potrebbero sentirsi costretti a prendere una decisione drastica, anche se questa dovesse provocare una reazione da parte degli Stati Uniti. Qualunque cosa succeda, lo stretto di Hormuz resterà al centro dell’attenzione internazionale per tutto il 2012, e il prezzo del petrolio salirà e scenderà di pari passo con la tensione in quella zona.

I fondali del Pacifico
Il mar Cinese meridionale è una parte dell’oceano Pacifico occidentale delimitata a nord dalla Cina, a ovest dal Vietnam, a est dalle Filippine e a sud dall’isola del Borneo. Quest’ultima è divisa in tre zone che appartengono rispettivamente al Brunei, all’Indonesia e alla Malesia. In quel tratto di mare si trovano anche due arcipelaghi quasi disabitati: le isole Paracelso e Spratly. Oltre a essere da tempo un’importante zona di pesca, il mar Cinese meridionale è anche una delle principali rotte del commercio marittimo tra Asia orientale, Europa, Medio Oriente e Africa. Di recente ha acquisito ulteriore rilevanza come possibile fonte di petrolio e gas naturale. Gli esperti, infatti, ritengono che ci siano ricchi giacimenti nei fondali marini intorno alle Paracelso e alle Spratly.

Con la scoperta dei depositi di greggio e di gas, il mar Cinese meridionale è diventato un altro potenziale centro di tensione internazionale. Alcune delle isole che popolano questa zona ricca di riserve energetiche sono rivendicate da tutti i paesi circostanti. La Cina le reclama tutte e ha mostrato di essere pronta a usare la forza militare per affermare il suo predominio. Com’era prevedibile, questo ha messo Pechino in conflitto con gli altri contendenti, tra cui alcuni paesi che hanno stretti rapporti militari con gli Stati Uniti. Di conseguenza, quello che all’inizio sembrava un problema regionale limitato alla Cina e ad alcuni membri dell’Associazione dei paesi del sudest asiatico (Asean), è diventato un possibile motivo di conflitto tra le due principali potenze mondiali.

Per portare avanti le loro rivendicazioni, Brunei, Malesia, Vietnam e Filippine hanno cercato di agire collettivamente attraverso l’Asean, convinti che un approccio multilaterale avrebbe garantito un maggior potere negoziale con Pechino. Da parte loro i cinesi insistono nel sostenere che tutte le dispute devono essere risolte a livello bilaterale. In questo modo, infatti, possono far pesare di più la loro forza economica e militare. Ma ora che sono meno preoccupati per l’Iraq e l’Afghanistan, anche gli Stati Uniti si sono gettati nella mischia, offrendo pieno sostegno ai paesi dell’Asean nel loro tentativo di negoziare congiuntamente con Pechino.

Il ministro degli esteri cinese Yang Jeichi ha consigliato agli Stati Uniti di non immischiarsi. Un loro intervento, ha detto, “peggiorerebbe solo la situazione e renderebbe più difficile una soluzione”. Il risultato è stato uno scontro verbale tra Pechino e Washington. A luglio, durante una visita nella capitale cinese, l’ammiraglio statunitense Mike Mullen ha espresso una velata minaccia parlando di una possibile azione militare. “Una delle mie preoccupazioni”, ha commentato Mullen, “è che gli incidenti attuali provochino errori di calcolo con conseguenze imprevedibili”. Per ribadire la loro posizione, gli Stati Uniti hanno condotto una serie di esercitazioni militari nel mar Cinese meridionale, comprese alcune manovre congiunte con navi vietnamite e filippine. Per non lasciarsi superare, anche la Cina ha condotto una serie di manovre navali. È la ricetta perfetta per possibili “incidenti” futuri.

Il mar Cinese meridionale è da tempo al centro dell’attenzione di chi si occupa di questioni asiatiche, ma a novembre ha attirato su di sé gli occhi di tutto il mondo. Durante una visita in Australia il presidente Obama ha spiegato chiaramente qual è la nuova strategia statunitense, che mira a contrapporsi al potere della Cina in Asia e nel Pacifico. “Nei nostri bilanci futuri”, ha detto davanti al parlamento australiano riu­nito a Canberra, “intendiamo stanziare le risorse necessarie per mantenere una forte presenza militare in quella regione”. Uno degli obiettivi chiave sarà garantire la “sicurezza” nel mar Cinese meridionale.

In Australia Obama ha annunciato anche l’apertura di una nuova base a Darwin, sulla costa nordorientale australiana, e l’intenzione di rafforzare i legami militari con l’Indonesia e le Filippine. A gennaio ha di nuovo sottolineato l’importanza della presenza americana nella regione quando è andato in visita al Pentagono per discutere la posizione dell’esercito statunitense nel mondo. Senza dubbio anche Pechino farà dei passi, non meno aggressivi, per difendere i suoi interessi nel mar Cinese meridionale. A cosa porterà tutto questo, ovviamente, non possiamo ancora saperlo.

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Autonomia da Mosca
Il mar Caspio è uno specchio d’acqua su cui si affacciano la Russia, l’Iran e tre ex repubbliche sovietiche: Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan. Nella zona circostante si trovano anche le ex repubbliche sovietiche di Armenia, Georgia, Kirghizistan e Tagikistan. Questi paesi stanno cercando di affermare la loro autonomia da Mosca e di stabilire rapporti indipendenti con gli Stati Uniti, l’Unione europea, l’Iran, la Turchia e ora anche con la Cina. Sono tutti caratterizzati da divisioni interne e coinvolti in dispute di confine con i vicini. La regione potrebbe diventare un focolaio di futuri conflitti anche se il bacino del Caspio non contenesse alcune delle più grandi riserve non sfruttate di petrolio e di gas naturale del mondo.

Non è la prima volta che il Caspio è considerato una fonte potenziale di conflitti. Alla fine dell’ottocento la regione intorno alla città di Baku – che all’epoca faceva parte dell’impero russo e oggi appartiene all’Azerbaigian – costituiva una grande riserva di petrolio e di conseguenza era considerata fondamentale dal punto di vista strategico. Il futuro dittatore sovietico Josip Stalin si fece conoscere proprio mettendosi alla guida degli operai della zona. Anche Hitler cercò di conquistare l’area durante l’invasione dell’Unione Sovietica. Dopo la seconda guerra mondiale la regione perse d’importanza come produttrice di petrolio a causa dell’esaurimento dei giacimenti di Baku. Ma ora si stanno scoprendo nuovi depositi al largo della costa e in zone finora poco sfruttate come il Kazakistan e il Turk­menistan.

Secondo il colosso dell’energia British Petroleum, il Caspio contiene almeno 48 miliardi di barili di greggio (soprattutto in Azerbaigian e Turkmenistan). Questo significa che la regione ha più gas del Nordamerica e del Sudamerica e più petrolio dell’Asia. Ma estrarre tutta questa energia e farla arrivare sui mercati stranieri richiede un impegno enorme. Le infrastrutture della regione sono assolutamente inadeguate e il Caspio stesso non offre sbocchi in altri mari. Tutto quel petrolio e quel gas, quindi, dovrebbero viaggiare via terra attraverso gli oleodotti o la ferrovia.

La Russia, che è da tempo la potenza dominante nella regione, sta cercando di assicurarsi il controllo delle rotte lungo le quali il greggio e il gas del Caspio raggiungeranno i mercati. Mosca sta modernizzando gli oleodotti dell’era sovietica, che collegano le ex repubbliche alla Russia, ed è pronta a costruirne di nuovi. Per ottenere il quasi monopolio sulla vendita di tutta questa energia, sta usando la diplomazia tradizionale e la tattica del braccio di ferro. Usa anche la corruzione per convincere i leader regionali (molti dei quali provengono dalla burocrazia sovietica) a far passare l’energia attraverso la Russia. Come racconto nel mio libro Rising powers, shrinking planet, Washington ha cercato di ostacolare queste iniziative finanziando la costruzione di oleo­dotti alternativi che aggirano la Russia e raggiungono il Mediterraneo attraverso l’Azerbaigian, la Georgia e la Turchia. Per esempio il Btc, l’oleodotto Baku-Tbilisi- Ceyan. Pechino, invece, ne sta costruendo altri che collegano la zona del Caspio alla Cina occidentale.

Tutti questi oleodotti attraversano zone di forti conflitti etnici e passano accanto a regioni instabili e contese come la Cecenia e l’Ossezia del Sud. Per questo la Cina e gli Stati Uniti hanno offerto ai paesi attraversati dagli oleodotti un aiuto militare durante la loro costruzione. Preoccupata di una possibile presenza statunitense nei territori dell’ex Unione Sovietica, la Russia ha risposto con alcune iniziative militari, tra cui la breve guerra con la Georgia dell’agosto del 2008, scoppiata proprio lungo il percorso del Btc.

Date le dimensioni delle riserve del Caspio, molte aziende petrolifere stanno progettando di aprire nuove basi nella regione e di costruire gli oleodotti necessari per portare gas e greggio sui mercati. L’Unione europea, per esempio, spera di poter costruire il gasdotto Nabucco, che dovrebbe andare dall’Azerbaigian all’Austria passando attraverso la Turchia. Mentre la Russia ha in progetto una struttura concorrente, il South Stream. Tutte queste iniziative toccano gli interessi geopolitici delle grandi potenze, e questo fa della regione del Caspio un’altra potenziale fonte di crisi e di conflitti internazionali.

Ma nella nuova era della geoenergia, lo stretto di Hormuz, il mar Cinese meridionale e il bacino del Caspio non sono gli unici punti caldi. Un altro è sicuramente il mar Cinese orientale, dove Cina e Giappone si stanno contendendo un giacimento di gas naturale sottomarino. Poi ci sono le isole Falkland, dove sia la Gran Bretagna sia l’Argentina rivendicano il diritto allo sfruttamento delle riserve di petrolio sottomarine. E in futuro diventerà un punto caldo l’Artide, assediato dal riscaldamento globale e le cui risorse sono rivendicate da molti paesi.

Una cosa è certa: nel 2012, ovunque scoccherà una scintilla, ci sarà petrolio nell’acqua e pericolo nell’aria.
Fonte Internazionale

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